sabato 6 ottobre 2012

il caso Mastrogiovanni



il manifesto martedì 2 ottobre 2012
Francesco Mastrogiovanni morì legato a un letto di contenzione: oggi requisitoria del pm al processo che vede indagati 18 medici e infermieri dell’ospedale di Vallo della Lucania
Un anarchico in cerca di guai
di Angelo Mastrandea

Il 2 ottobre 2012 Francesco Mastrogiovanni avrebbe compiuto il suo sessantunesimo compleanno. Lo avrebbe festeggiato, immaginiamo, nella sua casa in mezzo alla campagna a Castelnuovo Cilento, insieme alla madre e al fratello che vivevano nella stessa abitazione, alla sorella Caterina e magari agli amici che, non fosse accaduto quello che stiamo per raccontare, sarebbero rimasti tali senza bisogno di organizzarsi in un Comitato che chiede verità e giustizia. Solo il padre Alfonso, che nel ’72 era stato anche candidato al Senato dal manifesto nel collegio di Sala Consilina (era la stessa campagna elettorale della candidatura di Pietro Valpreda, il “ballerino anarchico” ingiustamente incarcerato per la strage di Piazza Fontana), non c’è piùdal ’98 e non sarebbe stato della partita. Per ironia della sorte oggi, 2 ottobre 2012, questi convitati saranno invece tutti nel tribunale di Vallo della Lucania ad ascoltare la requisitoria del pubblico ministero Renato Martuscelli al processo che vede imputati di sequestro di persona, falso in atto pubblico e morte in conseguenza di altro reato sei medici e dodici infermieri per la tragica fine di Francesco Mastrogiovanni, avvenuta la notte del 4 agosto del 2009 dopo un’agonia di quattro giorni, legato su un letto di contenzione del centro di salute mentale del locale ospedale. Familiari e conoscenti cercheranno di ricevere una prima risposta giudiziaria ai tanti perché di una vicenda che nessuno finora è riuscito a spiegare compiutamente.
Ma, comunque andrà a finire, nessun giudice potrà riuscire a sciogliere fino in fondo tutti i nodi di questa intricata vicenda, cominciata la sera del 30 luglio 2009 sul lungomare cilentano di Acciaroli, o forse addirittura la sera del 7 luglio 1972 su quello di Salerno. I magistrati potrebbero contribuire a snodare solo il primo dei tanti lacci che avvolgono questa terribile storia, spiegando il perché Francesco Mastrogiovanni entra, alle 12,32 del 31 luglio 2009, nell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, e ne esce cadavere ottantanove ore dopo, e per quale ragione, tra i diciotto medici e infermieri coinvolti a vario titolo, non uno di loro si chiede se stiano facendo la cosa giusta a tenere un malato legato a un letto sedato, senza dargli da mangiare e da bere solo attraverso una flebo, non uno si cura di verificare se fosse denutrito o disidratato, quali siano le sue condizioni di salute. Più difficile dare delle risposte alle altre domande che familiari e amici si pongono: perché Francesco Mastrogiovanni viene fermato, in spiaggia la mattina del 31 luglio, con uno spiegamento di guardia costiera, carabinieri e vigili urbani degno della cattura di un boss della camorra; perché il sindaco-pescatore Angelo Vassallo, che di lì a un anno sarà assassinato misteriosamente in una vicenda che non ha nulla a che vedere con quest’ultima, non solo firma il Trattamento sanitario obbligatorio ma svolge addirittura un ruolo attivo, chiamando la sera prima alle 23,30 un tenente dei vigili e chiedendogli di intervenire per un Tso, appunto; perché l’uomo fermato in acqua, dopo una visita medica e un caffè al bar del campeggio La costa del Cilento dove villeggia, prima di salire sull’ ambulanza dice alla proprietaria Licia Musto: “Non mi fate portare a Vallo perché là mi ammazzano”.
L’omicidio Falvella
Nessuno riusciràmai a spiegare completamente, infine, quanto abbia influito su questa storia un’altra vicenda che aveva avuto un peso terribile nell’esistenza di Francesco Mastrogiovanni: quella che lo vide coinvolto nella morte del segretario locale del Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, Carlo Falvella.
Era la sera del 7 luglio del 1972, e lui, all'epoca studente universitario e vicino al movimento anarchico, percorreva via Velia, una stradina del centro di Salerno che scende verso il mare, insieme a un compagno, il ventiseienne Giovanni Marini. Nel pomeriggio quest’ultimo era stato minacciato, insieme a un altro giovane all’epoca appena diciassettenne, Gennaro Scariati, da un gruppo di fascisti. Gli anarchici salernitani stavano indagando su una inquietante vicenda che aveva coinvolto cinque loro compagni di Reggio Calabria, morti due anni prima in uno strano incidente stradale all’altezza di Ferentino, in provincia di Frosinone, mentre portavano a un avvocato romano delle carte che avrebbero, a loro dire, provato i legami tra ‘ndrangheta, estrema destra, servizi segreti deviati ed emissari dei colonnelli greci in vista del golpe Borghese, e come la prova di tutto ciò fosse un attentato, spacciato per incidente, a un treno diretto a Gioia Tauro. Uno di loro, Giovanni Aricò, era il cugino di Tonino Perna, economista e storico collaboratore del manifesto.
Avrebbe dovuto esserci anche Perna su quell’auto ma decise diversamente all’ultimo istante, e oggi racconta: “Mio cugino prima di partire mi disse che avevano in mano delle carte che avrebbero fatto tremare l’Italia”. L’incidente presenta a sua volta numerose stranezze, ma si tratta di un’altra storia e qui vale la pena ricordare solamente, ai fini della nostra ricostruzione del caso Mastrogiovanni, che questi documenti non saranno mai ritrovati e che il gruppo di anarchici cui apparteneva Mastrogiovanni stava indagando sull’autista del camion contro il quale i loro compagni si erano schiantati, che avevano scoperto essere un militante salernitano delMsi.
Quella sera Marini e Mastrogiovanni si trovarono ancora una volta di fronte il
gruppetto di provocatori del pomeriggio, quest’ultimo tentò di affrontarli con la parola ma ne ricevette in cambio una coltellata a una gamba. Marini a sua volta intervenne, disarmò l’accoltellatore, colpì a morte con la stessa arma Falvella e ferì all’inguine un altro missino,Giovanni Alfinito. Mastrogiovanni si farà alcuni mesi di carcere, sarà accusato di rissa e poi scagionato, ma la vicenda lo segnerà a lungo. Quanto ha pesato nel comportamento di agenti e medici, trentasette anni dopo, il fatto che fosse schedato nelle caserme di polizia e carabinieri come “noto anarchico”? E’ forse per questo che viene ordinata un’operazione poliziesca in così grande stile per bloccarlo, senza che, è bene ricordarlo, avesse commesso alcun reato, al massimo un’infrazione al codice stradale? Quanto ha contato quel precedente del 1999, quando, denunciato per resistenza aggravata dopo una multa per divieto di sosta, Mastrogiovanni aveva a sua volta accusato gli agenti di arresto illegale, lesioni personali, abuso di autorità e calunnia, sostenendo di essere stato picchiato in caserma e riuscendo a ottenere in secondo grado l’assoluzione e il risarcimento per ingiusta detenzione? Quanto hanno inciso il suo passato e la nota avversione per le forze dell’ordine sul suo comportamento il giorno del fermo?
Il maestro più alto del mondo
Nell’agosto del 2009 è morto il nostro maestro Franco Mastrogiovanni. Era un gigante dalle mille risorse, un uomo buono e comprensivo. Era un uomo che non si limitava a insegnarci la matematica, ma ci dava anche preziosi consigli sulle altre materie. Durante l’intervallo molto spesso amava leggere il dizionario. A noi questa abitudine sembrava un po’ strana, un giorno infatti un nostro compagno gli domandò perché aveva questa passione, e lui rispose che nella vita bisogna sempre istruirsi e imparare nuovi vocaboli. Ci lasciava risolvere i nostri litigi senza intervenire, perché riteneva giusto che ognuno facesse da solo la pace. Un bell’aspetto del suo carattere era quello di essere sempre sorridente, anche nei momenti magari più difficili. Purtroppo ancora oggi ragioni valide della sua morte non ce ne sono”. Gli alunni lo avevano soprannominato “il maestro più alto del mondo” per via del suo metro e novanta di altezza. Tre di loro, Rosa Cortiglia, Giuseppina Di Filippo e Bartolomeo D’Alessandro, arrivati in seconda media, nel maggio scorso lo hanno ricordato affettuosamente sul giornalino della scuola “Giovanni Patroni di Pollica” intitolato “La tofa”, uno strumento rivoluzionario dal suono selvatico che nel 1848 servì a chiamare i contadini del Cilento alla rivolta anti-borbonica. Il “maestro più alto del mondo” al momento della morte era ancora un supplente, un precario della scuola, ma visto il punteggio in graduatoria presto sarebbe diventato di ruolo, quando ormai già veleggiava verso i sessant’anni. Non aveva mai avuto problemi con gli altri insegnanti, né con bambini e genitori, che anzi lo ricordano con affetto, come abbiamo visto dalle righe dedicategli sul giornalino scolastico. Come si concilia tutto ciò con le sue periodiche depressioni e con altri due trattamenti sanitari obbligatori cui era già stato sottoposto, nel 2002 e nel 2005, e che spiegherebbero, forse, quelle affermazioni al momento del fermo: “Nonmi fate portare a Vallo perché là mi ammazzano”? Anche chi lo aveva conosciuto lo ricorda come un uomo che si infiammava quando si parlava di politica,ma nessuno lo descrive come un “pazzo” o un violento, tutt’altro. Invece, è così che è stato trattato.
Il sindaco-pescatore
Gli orari, se vogliamo ricostruire con precisione questa storia senza purtuttavia riuscire a sciogliere tutti gli enigmi, sono decisivi. Tutto comincia alle 23,30 del 30 luglio 2009, quando il tenente dei vigili urbani di Pollica Graziano Lamanna afferma di aver ricevuto una telefonata dal sindaco Angelo Vassallo, che gli chiede di andare sull’isola pedonale di Acciaroli perché una persona stava creando problemi e bisognava fare un Tso.Nella sua relazione Lamanna scrive di aver tentato di fermarlo ma di non esserci riuscito, perché l’uomo guidava ad alta velocità con lo sguardo perso nel vuoto. La storia presenta delle lacune: come si fa a notare lo sguardo perso nel vuoto di notte in un’auto lanciata ad alta velocità? Chi è stato in vacanza da quelle parti, inoltre, sa bene che in quel periodo il lungomare di Acciaroli è affollatissimo e guidare a grande velocità nell’isola pedonale oppure contromano nelle strade circostanti vorrebbe dire avere grandi probabilità di commettere una strage e sarebbe un po’ come cantava Lucio Battisti, “guidare a fari spenti nella notte per vedere se è più facile morire”. In ogni modo, quella sera non accade nulla: Mastrogiovanni non viene fermato né multato né sottoposto a Tso, e non accade alcuna strage di pedoni innocenti. Lo stesso vigile alle 8,30 della mattina successiva lo vede passare di nuovo con la sua Punto bianca. Stando a quanto il pubblico ufficiale riferisce, ha ancora lo sguardo perso nel vuoto e non si ferma all’alt. Perciò Lamanna chiama i carabinieri e tutti insieme inseguonoMastrogiovanni sulla litoranea, fino ad Agnone, nel vicino comune di Montecorice, e poi indietro a San Mauro Cilento, dove il fuggitivo parcheggia, corre in spiaggia e si butta in acqua, ma si trova di fronte la Guardia costiera che, a detta di alcuni testimoni, avrebbe persino chiesto ai bagnanti con un megafono di allontanarsi dalla zona delle operazioni. Ne uscirà spontaneamente solo dopo una visita medica, effettuata dalla spiaggia a una settantina di metri di distanza da Mastrogiovanni, che certifica lo stato di agitazione in cui l’uomo si trova. Sono più o meno le 11 quando Mastrogiovanni viene portato sull’ambulanza, dove accetta di essere sedato.Il sindaco Vassallo, pur essendogli sfuggita di competenza la questione (il fermo avviene in un altro comune e non a Pollica) firma comunque il Tso senza neppure avvisare il suo collega di San Mauro Cilento e senza vedere i certificati medici, che gli vengono letti per telefono. Eppure, non sarebbe bastato il fatto che Mastrogiovanni si è “arreso” e fatto sedare di sua volontà per far decadere il Tso? E, risalendo a monte della faccenda, se si fosse trattato solo di una persona che aveva spinto un po’ troppo il piede sull’acceleratore, non saremmo stati di fronte a una banale, per quanto pericolosa, infrazione al codice della strada, affrontabile con una multa e provvedimenti sulla patente? Ancora: perché, se Mastrogiovanni era considerato così pericoloso da meritare un ricovero coatto, è stato lasciato libero di scorrazzare per un’intera notte? Il Comitato verità e giustizia, che si è costituito parte civile al processo insieme ai familiari, è rimasto doppiamente ferito dall’uccisione di Vassallo: prima per il mistero legato alla morte di un sindaco dai modi sì spicci ma benvoluto, rigoroso e onesto, poi perché “la sua testimonianza al processo sarebbe stata utile. Avrebbe almeno potuto spiegare perché ha firmato quel Tso”. Assodato quel che avrebbe potuto fare il sindaco-pescatore, la domanda successiva rimane comunque inevasa: perché i vigiliurbani hanno eseguito degli ordini a dir poco sbagliati? E per quale motivo i medici hanno perseverato nell’errore? Se pure qualcuno si è accorto che non tutto era compiuto secondo le regole, ne desumiamo che non ha avuto il coraggio di opporsi.
Il video della stanza
Per la ricostruzione delle ultime, terribili ottantatre ore di vita di Francesco Mastrogiovanni risultano decisive le riprese dall’alto della stanza del reparto di Psichiatria in cui l’uomo, dopo l’ingresso alle 12,33 in ospedale in cui appare tranquillo e collaborativo al punto da consumare anche un pasto e da stringere la mano ai medici, viene sedato e legato mani e piedi a un letto. Non ci fossero state, compagni e familiari avrebbero avuto molta più difficoltà a far emergere la loro verità. Dopo il ricovero coatto, la sorella Caterina si era rivolta al sindaco di Castelnuovo Cilento per avere notizie del fratello, e questi aveva assicurato che stava bene, probabilmente in base a informazioni indirette e senza averlo visto. La sera del 3 agosto, inoltre, alla vigilia della morte, la nipote Grazia Serra era andata a portare della biancheria allo zio ma le era stato risposto che non era possibile avvicinarlo, che stava bene e che entro una settimana al massimo sarebbe tornato a casa. È lo stesso sindaco di Castelnuovo ad avvisare Caterina della morte di Francesco, la mattina del 4 agosto, non i medici, cui sarebbe spettata l’incombenza. Poco prima, dall’ospedale avevano telefonato a casa del compagno di stanza di Mastrogiovanni, l’imbianchino Giuseppe Mangoletti che l’ha raccontato al processo, per dire ai congiunti di “portare i panni”, il modo in cui nel gergo locale si avvisano i familiari che il loro caro è deceduto. E’ stata una somma di inefficienze e di sciatterie al limite del disinteresse, rese evidenti da questo pacchiano errore finale, a provocare la morte del “maestro più alto del mondo”? Possibile, se si pensa che il filmato della telecamera interna, per chi ha la pazienza di guardarne ogni frammento, mostra persino come un infermiere arrivi a depositare il pasto al fianco di Mastrogiovanni senza slegarlo per permettergli di mangiare, e venga poi a riprenderselo quattro ore dopo. A conferma di ciò che stiamo ipotizzando è anche il fatto che la morte di Mastrogiovanni, avvenuta alle 1,45 di notte, viene scoperta solo al mattino, sei ore dopo. Eppure, il compagno di stanza ha raccontato come questi urlasse e si agitasse, e come quelle urla si siano fatte sempre più flebili fino al silenzio.
Il processo chiarirà responsabilità ultime e dettagli della vicenda, se il primario era in ferie come afferma o se invece ha partecipato alle decisioni, se il fatto che Mastrogiovanni si fosse dichiarato indisponibile a un prelievo di urina, chiesto dai carabinieri, per verificare l’uso di droghe bastasse a una dottoressa (un medico dello sport, incompetente a decidere, protestano al comitato) per confermare il Tso. Forse si potrebbe scoprire che Mastrogiovanni, in conclusione, non è stato ucciso per il suo passato anarchico né per qualche ignota resa dei conti, ma per un più banale così facevan tutti nel reparto di igiene mentale del San Luca di Vallo della Lucania. La contenzione, è quello che emerge dai racconti di altri malati finiti in quell’ospedale, potrebbe essere stata pratica comune, pur se nella cartella clinica di Mastrogiovanni non è menzionata né motivata e dall’ospedale hanno negato che fosse utilizzata. Questo darebbe una spiegazione, seppur parziale, alla principale delle domande che pone il caso Mastrogiovanni: perché per quattro giorni diciotto persone, tra medici e infermieri, non sono state sfiorate da alcun dubbio su quel che stavano facendo. Perché, in buona sostanza, una stanza d’ospedale si sia trasformata in una orribile camera delle torture. 


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