il manifesto martedì 2 ottobre 2012
Francesco
Mastrogiovanni morì legato a un letto di contenzione: oggi
requisitoria del pm al processo che vede indagati 18 medici e
infermieri dell’ospedale di Vallo della Lucania
Un
anarchico in cerca di guai
di
Angelo Mastrandea
Il 2
ottobre 2012 Francesco Mastrogiovanni avrebbe compiuto il suo
sessantunesimo compleanno.
Lo avrebbe festeggiato, immaginiamo, nella sua casa in mezzo alla
campagna a Castelnuovo Cilento, insieme alla madre e al fratello che
vivevano nella stessa abitazione, alla sorella Caterina e magari agli
amici che, non fosse accaduto quello
che stiamo per raccontare, sarebbero rimasti tali senza bisogno di
organizzarsi in un
Comitato che chiede verità e giustizia. Solo il padre Alfonso, che
nel ’72 era stato anche candidato al Senato dal manifesto
nel collegio di Sala Consilina (era la stessa campagna elettorale
della candidatura di Pietro Valpreda, il “ballerino anarchico”
ingiustamente incarcerato per la strage di Piazza Fontana), non c’è
piùdal
’98 e non sarebbe stato della partita. Per ironia della sorte oggi,
2 ottobre 2012, questi convitati saranno invece tutti nel tribunale
di Vallo della Lucania ad ascoltare la requisitoria del pubblico
ministero Renato Martuscelli al processo che vede imputati di
sequestro di persona, falso in atto pubblico e morte in conseguenza
di altro reato sei medici e dodici infermieri per la tragica fine di
Francesco Mastrogiovanni, avvenuta la notte del 4 agosto del 2009
dopo un’agonia di quattro giorni, legato su un letto di contenzione
del centro di salute mentale del locale ospedale. Familiari e
conoscenti cercheranno di ricevere una prima risposta giudiziaria ai
tanti perché di una vicenda che nessuno finora è riuscito a
spiegare compiutamente.
Ma,
comunque andrà a finire, nessun giudice potrà riuscire a sciogliere
fino in fondo tutti i nodi di questa intricata vicenda, cominciata la
sera del 30 luglio 2009 sul lungomare cilentano di Acciaroli, o forse
addirittura la sera del 7 luglio 1972 su quello di Salerno. I
magistrati potrebbero contribuire a snodare solo il primo dei tanti
lacci che avvolgono questa terribile storia, spiegando il perché
Francesco Mastrogiovanni entra, alle 12,32 del 31 luglio 2009,
nell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, e ne esce cadavere
ottantanove ore dopo, e per quale ragione, tra i diciotto medici e
infermieri coinvolti a vario titolo, non uno di loro si chiede se
stiano facendo la cosa giusta a tenere un malato legato a un letto
sedato, senza dargli da mangiare e da bere solo attraverso una flebo,
non uno si cura di verificare se fosse denutrito o disidratato, quali
siano le sue condizioni di salute. Più difficile dare delle risposte
alle altre domande che familiari e amici si pongono: perché
Francesco Mastrogiovanni viene fermato, in spiaggia la mattina del 31
luglio, con uno spiegamento di guardia costiera, carabinieri e vigili
urbani degno della cattura di un boss della camorra; perché il
sindaco-pescatore Angelo Vassallo, che di lì a un anno sarà
assassinato misteriosamente in una vicenda che non ha nulla a che
vedere con quest’ultima, non solo firma il Trattamento sanitario
obbligatorio ma svolge addirittura un ruolo attivo, chiamando la sera
prima alle 23,30 un tenente dei vigili e chiedendogli di intervenire
per un Tso, appunto; perché l’uomo fermato in acqua, dopo una
visita medica e un caffè al bar del campeggio La costa del
Cilento dove villeggia, prima di salire sull’ ambulanza dice
alla proprietaria Licia Musto: “Non mi fate portare a Vallo perché
là mi ammazzano”.
L’omicidio
Falvella
Nessuno
riusciràmai a spiegare completamente, infine, quanto abbia influito
su questa
storia un’altra vicenda che aveva avuto un peso terribile
nell’esistenza di Francesco
Mastrogiovanni: quella che lo vide coinvolto nella morte del
segretario locale del Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi,
Carlo Falvella.
Era la
sera del 7 luglio del 1972, e lui, all'epoca studente universitario
e vicino al movimento anarchico, percorreva via Velia, una stradina
del centro di Salerno che scende verso il mare, insieme a un
compagno, il ventiseienne Giovanni Marini. Nel pomeriggio
quest’ultimo era stato minacciato, insieme a un altro giovane
all’epoca appena diciassettenne, Gennaro Scariati, da un gruppo di
fascisti. Gli anarchici salernitani stavano indagando su una
inquietante vicenda che aveva coinvolto cinque loro compagni di
Reggio Calabria, morti due anni prima in uno strano incidente
stradale all’altezza di Ferentino, in provincia di Frosinone,
mentre portavano a un avvocato romano delle carte che avrebbero, a
loro dire, provato i legami tra ‘ndrangheta, estrema destra,
servizi segreti deviati ed emissari dei colonnelli greci in vista del
golpe Borghese, e come la prova di tutto ciò fosse un attentato,
spacciato per incidente, a un treno diretto a Gioia Tauro. Uno di
loro, Giovanni Aricò, era il cugino di Tonino Perna, economista e
storico collaboratore del manifesto.
Avrebbe
dovuto esserci anche Perna su quell’auto ma decise diversamente
all’ultimo istante, e oggi racconta: “Mio cugino prima di partire
mi disse che avevano in mano delle carte che avrebbero fatto tremare
l’Italia”. L’incidente presenta a sua volta numerose stranezze,
ma si tratta di un’altra storia e qui vale la pena ricordare
solamente, ai fini della nostra ricostruzione del
caso Mastrogiovanni, che questi documenti non saranno mai ritrovati e
che il gruppo di anarchici cui apparteneva Mastrogiovanni stava
indagando sull’autista del camion contro il quale i loro compagni
si erano schiantati, che avevano scoperto essere un militante
salernitano delMsi.
Quella
sera Marini e Mastrogiovanni si trovarono ancora una volta di fronte
il
gruppetto
di provocatori del pomeriggio, quest’ultimo tentò di affrontarli
con la parola ma ne ricevette in cambio una coltellata a una gamba.
Marini a sua volta intervenne, disarmò l’accoltellatore, colpì a
morte con la stessa arma Falvella e ferì all’inguine un altro
missino,Giovanni Alfinito. Mastrogiovanni si farà alcuni mesi di carcere,
sarà accusato di rissa e poi scagionato, ma la vicenda lo segnerà a
lungo. Quanto
ha pesato nel comportamento di agenti e medici, trentasette anni
dopo, il fatto
che fosse schedato nelle caserme di polizia e carabinieri come “noto
anarchico”? E’
forse per questo che viene ordinata un’operazione poliziesca in
così grande stile per
bloccarlo, senza che, è bene ricordarlo, avesse commesso alcun
reato, al massimo un’infrazione
al codice stradale? Quanto ha contato quel precedente del 1999,
quando, denunciato per resistenza aggravata dopo una multa per
divieto di sosta, Mastrogiovanni
aveva a sua volta accusato gli agenti di arresto illegale, lesioni
personali, abuso di autorità e calunnia, sostenendo di essere stato
picchiato in caserma e riuscendo a ottenere in secondo grado
l’assoluzione e il risarcimento per ingiusta detenzione? Quanto
hanno inciso il suo passato e la nota avversione per le forze
dell’ordine sul suo comportamento il giorno del fermo?
Il
maestro più alto del mondo
“Nell’agosto
del 2009 è morto il nostro maestro Franco Mastrogiovanni. Era un
gigante dalle mille risorse, un uomo buono e comprensivo. Era un uomo
che non si limitava a insegnarci la matematica, ma ci dava anche
preziosi consigli sulle altre materie. Durante l’intervallo molto
spesso amava leggere il dizionario. A noi questa abitudine
sembrava un po’ strana, un giorno infatti un nostro compagno gli
domandò perché
aveva questa passione, e lui rispose che nella vita bisogna sempre
istruirsi e
imparare nuovi vocaboli. Ci lasciava risolvere i nostri litigi senza
intervenire, perché riteneva giusto che ognuno facesse da solo la
pace. Un bell’aspetto del suo carattere era quello di essere sempre
sorridente, anche nei momenti magari più difficili. Purtroppo ancora
oggi ragioni valide della sua morte non ce ne sono”. Gli
alunni lo avevano soprannominato “il maestro più alto del mondo”
per via del suo
metro e novanta di altezza. Tre di loro, Rosa Cortiglia, Giuseppina
Di Filippo e Bartolomeo
D’Alessandro, arrivati in seconda media, nel maggio scorso lo hanno ricordato
affettuosamente sul giornalino della scuola “Giovanni Patroni di
Pollica” intitolato
“La tofa”, uno strumento rivoluzionario dal suono selvatico che
nel 1848 servì
a chiamare i contadini del Cilento alla rivolta anti-borbonica. Il
“maestro più alto del mondo” al momento della morte era ancora
un supplente, un
precario della scuola, ma visto il punteggio in graduatoria presto
sarebbe diventato di ruolo, quando ormai già veleggiava verso i
sessant’anni. Non aveva mai avuto problemi con gli altri
insegnanti, né con bambini e genitori, che anzi lo ricordano con
affetto, come abbiamo visto dalle righe dedicategli sul giornalino
scolastico. Come si concilia tutto ciò con le sue periodiche
depressioni e con altri due trattamenti sanitari obbligatori cui era
già stato sottoposto, nel 2002 e nel 2005, e che spiegherebbero, forse,
quelle affermazioni al momento del fermo: “Nonmi fate portare a
Vallo perché là mi ammazzano”? Anche chi lo aveva conosciuto lo
ricorda come un uomo che si infiammava quando si parlava di
politica,ma nessuno lo descrive come un “pazzo” o un violento,
tutt’altro. Invece, è così che è stato trattato.
Il
sindaco-pescatore
Gli
orari, se vogliamo ricostruire con precisione questa storia senza
purtuttavia riuscire
a sciogliere tutti gli enigmi, sono decisivi. Tutto comincia alle
23,30 del 30 luglio
2009, quando il tenente dei vigili urbani di Pollica Graziano Lamanna
afferma di
aver ricevuto una telefonata dal sindaco Angelo Vassallo, che gli
chiede di andare sull’isola
pedonale di Acciaroli perché una persona stava creando problemi e
bisognava fare un Tso.Nella sua relazione Lamanna scrive di aver
tentato di fermarlo ma di non esserci riuscito, perché l’uomo
guidava ad alta velocità con lo sguardo perso nel vuoto. La storia
presenta delle lacune: come si fa a notare lo sguardo perso nel vuoto
di notte in un’auto lanciata ad alta velocità? Chi è stato in
vacanza da quelle parti,
inoltre, sa bene che in quel periodo il lungomare di Acciaroli è
affollatissimo e guidare
a grande velocità nell’isola pedonale oppure contromano nelle
strade circostanti vorrebbe dire avere grandi probabilità di
commettere una strage e sarebbe un po’
come cantava Lucio Battisti, “guidare a fari spenti nella notte per
vedere se è più
facile morire”. In ogni modo, quella sera non accade nulla:
Mastrogiovanni non viene fermato né multato né sottoposto a Tso, e
non accade alcuna strage di pedoni innocenti. Lo stesso vigile alle
8,30 della mattina successiva lo vede passare di nuovo con la sua
Punto bianca. Stando a quanto il pubblico ufficiale riferisce, ha
ancora lo sguardo perso nel vuoto e non si ferma all’alt. Perciò
Lamanna chiama i carabinieri e tutti insieme inseguonoMastrogiovanni
sulla litoranea, fino ad Agnone, nel vicino comune di Montecorice, e
poi indietro a San Mauro Cilento, dove il fuggitivo parcheggia, corre
in spiaggia e si butta in acqua, ma si trova di fronte la Guardia
costiera che, a detta di alcuni testimoni, avrebbe persino chiesto ai
bagnanti con un megafono di allontanarsi dalla zona delle operazioni.
Ne uscirà spontaneamente solo dopo una visita medica, effettuata
dalla spiaggia a una settantina di metri di distanza da
Mastrogiovanni, che certifica lo stato di agitazione in cui l’uomo
si trova. Sono più o meno le 11 quando Mastrogiovanni viene portato
sull’ambulanza, dove accetta di essere sedato.Il sindaco Vassallo,
pur essendogli sfuggita di competenza la questione (il fermo avviene
in un altro comune e non a Pollica) firma comunque il Tso senza
neppure avvisare il suo collega di San Mauro Cilento e senza vedere i
certificati medici, che gli vengono letti per telefono. Eppure, non
sarebbe bastato il fatto che Mastrogiovanni si è “arreso” e
fatto sedare di sua volontà per far decadere il Tso? E, risalendo a
monte della faccenda, se si fosse trattato solo di una persona che
aveva spinto un po’ troppo il piede sull’acceleratore, non
saremmo stati di fronte a una banale, per quanto pericolosa,
infrazione al codice della strada, affrontabile con una multa e
provvedimenti sulla patente? Ancora: perché, se Mastrogiovanni era
considerato così pericoloso da meritare un ricovero coatto, è stato
lasciato libero di scorrazzare per un’intera notte? Il Comitato
verità e giustizia, che si è costituito parte civile al processo
insieme ai familiari, è rimasto doppiamente ferito dall’uccisione
di Vassallo: prima per il mistero legato alla morte di un sindaco dai
modi sì spicci ma benvoluto, rigoroso e onesto, poi perché “la
sua testimonianza al processo sarebbe stata utile. Avrebbe almeno
potuto spiegare perché ha firmato quel Tso”. Assodato
quel che avrebbe potuto fare il sindaco-pescatore, la domanda
successiva rimane
comunque inevasa: perché i vigiliurbani hanno eseguito degli ordini
a dir poco sbagliati? E per quale motivo i medici hanno perseverato
nell’errore? Se pure qualcuno si è accorto che non tutto era
compiuto secondo le regole, ne desumiamo che non ha avuto il coraggio
di opporsi.
Il
video della stanza
Per la
ricostruzione delle ultime, terribili ottantatre ore di vita di
Francesco Mastrogiovanni risultano decisive le riprese dall’alto
della stanza del reparto di Psichiatria in cui
l’uomo, dopo l’ingresso alle 12,33 in ospedale in cui appare
tranquillo e collaborativo al punto da consumare anche un pasto e da
stringere la mano ai medici, viene
sedato e legato mani e piedi a un letto. Non ci fossero state,
compagni e familiari avrebbero avuto molta più difficoltà a far
emergere la loro verità. Dopo il ricovero
coatto, la sorella Caterina si era rivolta al sindaco di Castelnuovo
Cilento per
avere notizie del fratello, e questi aveva assicurato che stava bene,
probabilmente in
base a informazioni indirette e senza averlo visto. La sera del 3
agosto, inoltre, alla vigilia
della morte, la nipote Grazia Serra era andata a portare della
biancheria allo zio ma
le era stato risposto che non era possibile avvicinarlo, che stava
bene e che entro
una settimana al massimo sarebbe tornato a casa. È lo stesso sindaco
di Castelnuovo ad avvisare Caterina della morte di Francesco, la
mattina del 4 agosto, non i medici, cui sarebbe spettata
l’incombenza. Poco prima, dall’ospedale avevano telefonato a casa
del compagno di stanza di Mastrogiovanni, l’imbianchino Giuseppe
Mangoletti che l’ha raccontato al processo, per dire ai congiunti
di “portare i panni”, il modo in cui nel gergo locale si avvisano
i familiari che il loro caro è deceduto. E’ stata una somma di
inefficienze e di sciatterie al limite del disinteresse, rese
evidenti da questo pacchiano errore finale, a provocare la morte del
“maestro più alto del mondo”? Possibile, se si pensa che il
filmato della telecamera interna, per chi ha la pazienza di guardarne
ogni frammento, mostra persino come un infermiere arrivi a depositare
il pasto al fianco di Mastrogiovanni senza slegarlo per permettergli
di mangiare, e venga poi a riprenderselo quattro ore dopo. A conferma
di ciò che stiamo ipotizzando è anche il fatto che la morte di
Mastrogiovanni, avvenuta alle 1,45 di notte, viene scoperta solo al
mattino, sei ore dopo. Eppure, il compagno di stanza ha raccontato
come questi urlasse e si agitasse, e come quelle urla si siano fatte
sempre più flebili fino al silenzio.
Il
processo chiarirà responsabilità ultime e
dettagli della vicenda, se il primario era in ferie come afferma o se
invece ha partecipato
alle decisioni, se il fatto che Mastrogiovanni si fosse dichiarato
indisponibile a un prelievo di urina, chiesto dai carabinieri, per
verificare l’uso di droghe bastasse a una dottoressa (un medico
dello sport, incompetente a decidere, protestano al comitato) per
confermare il Tso. Forse si potrebbe scoprire che Mastrogiovanni, in
conclusione, non è stato ucciso per il suo passato anarchico né per qualche ignota resa dei conti, ma per un più banale così facevan
tutti nel reparto di igiene
mentale del San Luca di Vallo della Lucania. La contenzione, è
quello che emerge
dai racconti di altri malati finiti in quell’ospedale, potrebbe
essere stata pratica
comune, pur se nella cartella clinica di Mastrogiovanni non è
menzionata né
motivata e dall’ospedale hanno negato che fosse utilizzata. Questo
darebbe una
spiegazione, seppur parziale, alla principale delle domande che pone
il caso Mastrogiovanni:
perché per quattro giorni diciotto persone, tra medici e infermieri, non
sono state sfiorate da alcun dubbio su quel che stavano facendo.
Perché, in buona sostanza, una stanza d’ospedale si sia
trasformata in una orribile camera delle torture.
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