giovedì 12 luglio 2012

Saint-Anne: Charcot e l'isteria 1












le fou: un personnage conceptuel? 2

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2. La follia: oggetto per la condizione umana
Esprit: In Le Rêve et l'Existence, edito in Francia nel 1954 con prefazione di Michel Focault, si ritrova l'idea che la descrizione dell'esperienza del matto apporta elementi per un antropologia dell' essere-nel-mondo. Ci sarebbe significato, nella follia, un certo rapporto col mondo, nella misura in cui il delirio del matto non è un delirio senza mondo e senza oggetto. Cosa ne pensa di questa convinzione che il matto abbia qualcosa da insegnarci sull'esistenza umana?


Castel: Ignoro quali fossero in Francia le condizioni per la ricezione delle ideee di Binswanger. Ma visto l'ambiente culturale dell'epoca, l'interesse per Husserl e Heidegger, e la diffusione della sociologia tedesca, attraverso il lavoro di Raymond Aron, penso che l'effetto sia stato grande. Nello stesso periodo, Focault ha tradotto anche Cycle de la structure di Victor von Weizsäcker, che propone una riforma della psicologia a partire dalla fenomenologia, ma anche dalla neurologia positiva. Vi è dunque un generale movimento di importazione in Francia del pensiero tedesco. Non bisogna dimenticare che nel decennio 1950-1960 si confrontano due tendenze: la fenomenologia e il marxismo. Per tanti, la fenomenologia, depurata dai residui di idealismo, è la filosofia più scientifica. Vi è dunque una produzione costante di saggi che gettano un ponte tra fenomenologia e marxismo. Phénomenologie et matérialisme dialectique1, di Tran Duc Thao, ebbe a quel tempo una risonanza, oggi dimenticata. In questo contesto l'esigenza di una descrizione rigorosa della vita spirituale, che non fosse incompatibile con il materialismo dialettico ha avuto un ruolo rilevante nel filtrare la ricezione della fenomenologia in Francia.
Per tornare al problema di fondo, è interessante sottolineare come sia merito dei filosofi, se la follia è diventata un oggetto tanto importante per l'esplorazione della condizione umana. Infatti, nel tempo considerato, gli psichiatri sono soggiogati, negli ambienti medici che contano, dalla neurologia. La clinica dell'afasia, se andiamo a chiedere a chi ha studiato in quei tempi là, era la pietra di paragone dell'eccellenza: precisione analitica, spiegazione meccanicistica, ecc. Gli psichiatrici erano considerati, più o meno, dei neurologi mancati. D'altra parte l'effervescenza intellettuale non era di casa all'università. Fu Henri Ey a cambiare tutto con il suo carisma. Adoro le sue punzecchiature ai cattedratici di allora: «Ci sono degli insegnanti di diritto e degli insegnanti di fatto». Ey si schiera con Eugéne Minkowski e sprona alla lettura di Husserl e Heidegger, in opposizione ad un establishment parigino piuttosto reazionario, che tira avanti su posizioni cerebraliste. Se guardiamo retrospettivamente  il lascito degli allievi di Jean Delay - la covata del Saint-Anne - si delineano tre filiere: Thérèse Lampérière ha fatto della clinica ("francese") tradizionale, Pierre Pichot si è specializzato in psicometria e Pierre Deniker si è dedicato alla psicofarmacologia. Questi tre indirizzi, tramite gli allievi degli allievi, strutturano tuttora la psichiatria francese, ma il loro intrinseco peso intellettuale è quasi zero. E quando si ricorda l'enorme prestigio della psichiatria francese degli anni '50, si deve prendere atto che quel patrimonio è stato interamente dilapidato. Il primato, in medicina, della formazione neurologica ha comunque marginalizzato la psicanalisi. Lacan, è vero, lavorava in quegli anni nella divisione di Delay e anche in quella di Georges Daumezon erano regolarmente assunti psicanalisti, ma questo tipo di collaborazione restava subalterno. Non contribuì  minimamente alla costituzione di un establishment psichiatrico-psicanalitico, fecondato dalle scienze umane, come avvenne, invece, negli anni '70. Fu dunque per il dirottamento operato dai filosofi che le tesi della psicanalisi diventano la base dell'intelligentsia psichiatrica, emancipata dalla neurologia, del post '68. Ricœur, per esempio, approfitta del suo status di prestigioso docente per incorporare Freud in un corso da cui avrebbe dovuto restare escluso. Ma si sobbarca anche il compito di andare fino all'ospedale d'Orléans, per incontrarne i pazienti e di assistere al seminario di Lacan, cosa che, al momento, era una promozione per Lacan e non certo per lui. La mia risposta è molto storicizzante, ma l'idea che il matto ha qualcosa da insegnarci sulla condizione umana è così tanto circoscritta in un tempo preciso, che gli ha conferito senso, da non ammettere proiezioni delle nostre idee attuali.


Esprit: La pubblicazione, nel 1961, della Histoire de la folie à l'âge classique di Michel Focault, segna incontestabilmente una svolta. Si tratta di fare la storia della ragione moderna attraverso il suo trattamento della follia. Perché Focault privilegia questa figura dell'alterità, o del "fuori"?


Castel: In realtà, in partenza Focault non vuol fare una teoria della follia, ma piuttosto una teoria dell'uso che si fa dei riferimenti alla follia per determinare la nozione di ragione. I testi posteriori a Pouvoir psychiatrique (1973-1974), invece, sconfinano più decisamente in campo clinico: Focault vi critica la maniera con cui si è costruito e legittimato l'alienismo. Comincia allora una critica intrinseca della psichiatria come pseudoscienza, come verità normante che produce il malato mentale esercitandovi sopra il proprio potere. Focault rende comunque intellettualmente utilizzabili i lavori che storici, completamente dimenticati dalla posterità, hanno scritto sugli alenisti francesi (Pinel, Esquirol). I loro assunti hanno acquistato senso all'interno di una strumentazione filosofica che, più che levar loro la patina del tempo, li ha decisamente resuscitati. Tuttavia, pur riprendendo interi brani dei loro studi, Focault non li cita mai, operando come se avesse fatto ricorso direttamente alle fonti primarie.
Di base, Focault sviluppa qui un progetto criticista, nel senso kantiano del termine. Il tema della follia (gli psichiatri hanno orrore che si utilizzi questa parola) gli permette di condurre una riflessione critica sui limiti della ragione umana. Una critica della ragione "pura" si può condurre solo entro i limiti della ragione. Ma una critica della ragione "umana" obbliga al confronto con il "disumano", ossia con l'animalità dell'uomo. È dunque centrale la dimensione antropologica. Intanto, la figura del folle contrasta con quella del soggetto razionale? No, di certo. Può certo opporsi a un utilizzo semplicistico del soggetto. Però, dovunque ci sia criticismo, c'è riflessività, e laddove c'è riflessività, si ha sempre un residuo di soggetto metafisico, tranne nel caso - che qui avviene con particolare determinazione - che egli si ponga all'esterno di sé, per osservarsi nell'atto della sua costituzione. Nel razionalismo classico, così come lo legge Focault, la ragione suscita l'idea di un'Alterità a se stessa, per poi definirsi in sua opposizione. La non ragione non sarebbe dunque altro che la ragione allo specchio, quell'alterità radicale che essa ha espulso dal proprio ordine. L'argomento è quello che Kant sviluppa in Anthropologie d'un point de vue pragmatique, testo che d'altronde Focault traduce nel 1964. Kant definisce lì la non-ragione come, in definitiva, una ragione a rovescio. Questa concezione della follia, dunque, non distrugge per nulla il soggetto cartesiano e pur avvitando vorticosamente la dialettica del soggetto, in realtà, di questo non si disfa. Precisamente su questo punto si dipana la polemica tra Focault e DeriddaQuesti contesta la  "posizione dominante" che Focault riserva alla ragione. Per Deridda la separazione tra ragione e non-ragione è, nel cogito cartesiano, molto meno netta. Io credo che si potrebbe immaginare un'alternativa ispirata a Wittgenstein: la ragione è circoscritta dalla non-ragione, come la vita dalla morte, dice da qualche parte. Ma ciò non implica necessariamente che l'Alterità della regione debba essere una sorta di contro-ragione o di anti-ragione assoluta, completamente fuori. Bisogna spezzare lo specchio ingannatore, parcellizzarne i singoli riflessi, regionalizzarli, ma mai, e su questo sono anti-foucaldiano, sostituire al Potere dei micropoteri. Perché questi, a livello molecolare, continuerebbero, ancora e sempre, a innescare l'infaticabile dialettica dello scarto e della norma. Molto empiricamente, e letteralmente, mi sembra che si dovrebbe rilevare che il moltiplicarsi di nuove pratiche e giochi concettuali  sul perimetro della ragione, dove lo scarto dalla norma e il differenziale dei poteri sono solo una delle modalità dell'alterità, non sia nulla di particolarmente edificante o pertinente.


Esprit: Il rapporto con il linguaggio, con la letteratura, riveste un ruolo fondamentale nella percezione della follia. Continuando con questo discorso sui rapporti tra la figura del matto e il soggetto, in che misura il tema del "vuoto di opere" avanzato da Blanchot può essere un ulteriore mezzo per rimettere in causa i poteri della coscienza?


Castel: Nella pratica psichiatrica francese, sia universitaria che istituzionale, mettere l'accento sulle capacità artistiche dei malati di mente è uno dei modi più recenti di non ridurre la malattia mentale a un deficit. Non è così, ad esempio, nella pratica psichiatrica anglosassone, dove vengono valorizzate di più le capacità di organizzazione comunitaria dei malati, il loro reinserimento attivo nel tessuto sociale, il loro attivismo associativo (si pensi al Recovery Mouvement e al silenzio assoluto, confinante con il disprezzo, di cui è gratificato in Francia: "comunitarismo", "auto-accecamento neoliberale", ecc.). Questo topos letterario è una delle chiavi del successo della fenomenologia in psichiatria, a partire da Henri Maldiney, fino alla recente traduzione del lavoro di Binswanger e  Warburg3. Nel momento in cui si ammette la possibilità di opere, e quindi della mancanza di opere, si instaura un altro rapporto con la malattia. La bella formula di Blanchot è fonte di dignità. Anche la psicanalisi ha promosso la creazione artistica ad asse terapeutico, come attestano i testi di Lacan sul surrealismo, sul “caso Aiméee su James Joice4. Ma se l'approccio estetico di Henri Maldiney ha, a mio parere, esteso il concetto d'arte a prescindere dal suo valore terapeutico, la psicanalisi ha invece cercato di porre in pratica, cioè di istituzionalizzare, la creazione artistica come fattore terapeutico. Questa fucina della pratica è l'aspetto più interessante. Cosa ne deriva? Perché esattamente, si offrono ai malati di mente laboratori di scrittura o di pittura e non, ad esempio della "meditazione cognitiva" o il training per trovar lavoro? Lo specchio del matto e del soggetto, questa bella allegoria degli anni '60 si sfalda velocemente. Non c'è altro da proporre?
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1 Tran Duc Thao, Phénomenologie et matérialisme dialectique, Paris, 1951.  
2 Jacques Deridda, «Cogito et histoire dela folie», conferenza al Collège Philosophique (1963), poi in L'Écriture et la Différence, Paris, 1967-
3 Ludwig Binswanger, Aby Warburg, La Guérison infinie, Paris, 2007.
4 Jacques Lacan, De la psychose paranoïque dans ses rapports avec la personalité. Paris, 1980. Id. séminaire le Sinthome, 1976.

Duchenne de Boulogne. Seduta di elettrostimolazione











mercoledì 11 luglio 2012

Album della Salpêtrière 2 Paul Richer










Album della Salpêtrière 1 Jules Bernard Luys


le fou: un personnage conceptuel? 1

marzo - aprile 2012
conversazione con Pierre-Henri Castel
a cura di Olivier Mongin.


Il matto: un personaggio concettuale?

Esprit - Dal dopoguerra, la figura del "matto", insieme a quella del "bambino" e del "selvaggio", è emersa come una nuova risorsa della filosofia francese. Vi si fa riferimento (come fa, ad esempio, Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione) per descrivere un rapporto col mondo differente da quello  instaurato dalla ragione. Come si spiega questo simbolismo ricorsivo, all'indomani della Seconda guerra mondiale? In che modo la follia permette di spostare le frontiere del reale o del razionale per  far entrare in scena un'inedita verità?
P.-H. Castel - Su questa questione, mi sembra che la filosofia francese si sia strutturata in maniera del tutto particolare. Da un lato, a partire da Descartes, ha un rapporto che costituisce la ragione come negazione della non-ragione. L'autocoscienza cartesiana si costituisce, attraverso l'esperienza delle Meditazioni metafisiche, e passando attraverso il dubbio, come entità razionale e al sé evidente, mediante l'esclusione di tutti gli elementi non razionali. Seguendo questa traccia, la filosofia francese, da Maine de Biran a Bergson, ha avuto particolare attenzione per quella, che oserei definire, l'esteriorità di questa interiorità. L'utilizzo della follia come figura dell'alterità della ragione, nella seconda metà del XX secolo, non è dunque che la ripresa di un tema già posto. D'altra parte, Auguste Comte, altro padre nobile della filosofia francese, riprende nel suo Corso di filosofia positiva, la tesi di Bichat secondo cui il normale e il patologico sono in continuità1, di modo che l'investigazione scientifica dei fenomeni patologici permetterebbe di perfezionare le conoscenze relative agli stati normali. Il metodo patologico applicato allo studio dei fatti morali è così divenuto una costante della filosofia francese fino a Canguilhem. Quest'idea di rapporto tra normale e patologico, intersecandosi con la questione della costituzione del soggetto e della razionalità che esclude il non razionale, ha offerto un terreno "naturale" per la maturazione di una rappresentazione concettualmente densa della follia. Sulla base di questa ricostruzione storica, sono poco incline a concedere che il ricorso alla figura del matto abbia avuto, nella seconda metà del XX secolo, i caratteri di una maggior discontinuità. Si basava su un retroterra culturale preciso, e quando si lega allo sviluppo della fenomenologia (è questo il suo tratto più originale) lo fa prolungando linee di pensiero già esistenti.
Del resto, la filosofia francese della III Repubblica intrattiene rapporti sostanziosi con la psicologia. L'esame di psicologia era obbligatorio per la laurea in filosofia e, negli anni '20, gli studenti della Sorbona frequentavano con regolarità le lezioni di Georges Dumas al Saint-Anne. Sartre conosceva e discuteva le idee di Janet; Bergson e Janet lavoravano insieme al Collège de France. C'è dunque, nel pubblico colto una notevole sensibilità per queste tematiche. Tale prossimità tra filosofia e psicologia induceva anche a veementi polemiche. Esempio clamoroso, che non è stato mai oggetto di uno studio specifico, è l'analisi che fa Lacan del caso del presidente Schreber2. In quel testo Lacan rifiuta la definizione di Taine dell'allucinazione quale percezione senza oggetto. L'idea che un folle senta qualcosa che non esiste, non è più sostenibile. L'allucinazione è piuttosto l'irruzione di un oggetto non significabile, che denuncia una qualche carenza nel rapporto tra il soggetto e il codice del linguaggio. Ma anche Merlau-Ponty, nella Fenomenologia della percezione, aveva già un'identica posizione, anti Taine. Infatti la fenomenologia si focalizza sull'esperienza in prima persona, sui vissuti soggettivi. In tal modo può concepire la coscienza non come un'omogenea e completa sostanza pensante, ma come una relazione dinamica, una struttura essenzialmente intenzionale, da cui si definisce la percezione non più come ricezione passiva di informazioni fornite dagli organi di senso, ma fondamentalmente come attività. Il nuovo soggetto fenomenologico è quindi incompatibile con la definizione di percezione senza oggetto, dell'allucinazione - definizione, per inciso, che è tuttora quella del DSM3, oltre che del senso comune4. La riferita presa di posizione di Lacan non rappresenta, dunque, tanto una rottura con il soggetto cartesiano - rottura già consumata dalla fenomenologia - quanto un'esemplificazione dell'interesse della filosofia francese per la follia, alimentato dalla volontà di tutti gli autori degli anni '50, di cimentarsi nella miglior distruzione possibile del soggetto cartesiano e dell'idea tradizionale di coscienza.
L'effervescenza attorno al tema della follia è ulteriormente, stimolata, in quegli anni, dai progressi della psichiatria. La fede nella possibilità, per le nuove scienze umane e la psicanalisi, di spiegare e guarire le psicosi, arriva in Francia nei primi anni '60, dieci anni dopo gli Stati Uniti. La grande delusione degli anni '80 sta nella constatazione che, se anche psicofarmaci e neurolettici hanno cambiato la presa in carico delle psicosi croniche, purtuttavia non le hanno guarite. L'orizzonte di una guarigione possibile si intravede fino al citato articolo di Lacan5: anche se il testo induce a concludere che le psicosi (a differenza delle nevrosi) non sono guaribili dalla psicanalisi, il titolo tradisce una certa qual aria di ottimismo rispetto alle future ricerche.
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1 Per Bichat la malattia conferisce un nuovo statuto epistemologico, non essendo altro che la forma patologica della vita.
2 Jacques Lacan, Séminaire sur les psychoses, Paris, 1966; Id. , «Questions préliminaires à tout traitement possible de la psychose», Paris, 1966.
3 Manuale Diagnostico Statistico dell'OMS.
4 Cfr.  Louis Sass, Les paradoxes du délire. Wittgenstein, Schreber et l'ésprit schizophrénique, Paris, 2010.
5 vedi nota 2.
seconda parte