martedì 25 dicembre 2012

lusso inutile



Il Centro Frantz Fanon cessa la propria attività presso l’ASL TO 1 a partire dal 15 gennaio 2013



Il Centro Frantz Fanon, da oltre dieci anni ospite dell’ASL TO 1 (ex  ASL 2) grazie a una convenzione per l’uso dei suoi locali, e dal settembre 2009 operante all’interno degli accordi stabiliti da una gara d’appalto per le attività cliniche e di mediazione culturale rivolte alla popolazione immigrata, ha appreso che dal 15 gennaio 2013 cessa il contratto d’affitto fra l’ASL e il proprietario dei locali dove attualmente il Centro opera.
Se per gli altri Servizi ubicati nella stessa sede – Centro diurno e Gruppo Residenze del Dipartimento di Salute Mentale – sono state previste, a fatica, soluzione alternative, nessuna indicazione è stata invece proposta per spostare in altra sede ASL le attività del Centro Frantz Fanon (Servizio di counselling, psicoterapia e supporto psicosociale per gli immigrati, i rifugiati e le vittime di tortura). Ciò significa che entro quella data dovremmo traslocare ‘senza destinazione’, non potendo più continuare le nostre attività all’interno dell’ASL TO1.
Alle ripetute richieste di poter continuare a svolgere il nostro lavoro presso altri locali di quest’ultima, alle sollecitazioni inoltrate dal Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ai Dirigenti aziendali,nessuna risposta è pervenuta sino ad oggi dai vertici dell’Azienda, a meno di qualche settimana dall’obbligo di abbandonare i locali. L’unica comunicazione che indirettamente concerne anche il Centro Fanon è pervenuta via e-mail ad operatori le cui attività sono realizzate nello stesso stabile:

«Dottoressa,
Le rammento che la disdetta del contratto di via Vassalli Eandi 18 è già operativa pertanto l'immobile dovrà essere completamente libero dal 15 gennaio 2013 per procedere alla consegna
Cordialmente»

250 pazienti (adulti, minori, nuclei famigliari seguiti nel corso del 2012 e al momento in carico presso il Centro Fanon), molti dei quali affetti da gravi patologie, non potranno più essere seguiti dal nostro gruppo di lavoro, la cui esperienza, prima ed unica in Italia, è stata oggetto in questi anni di apprezzamenti e riconoscimenti nazionali e internazionali. Lo ricordiamo senza alcuna presunzione, ma solo per dire dell’indifferenza e della miopia delle istituzioni al cospetto delle risorse esistenti e dei bisogni di cura dei cittadini stranieri: un’altra espressione della violenza delle istituzioni e dei loro dispositivi burocratici.

L’ASL si è mostrata sorda alle nostre richieste: la “continuità terapeutica”, valore sbandierato in tanti documenti e discorsi sino alla nausea, sembra improvvisamente diventare un concetto superfluo quando i Signori dell’Azienda devono operare i loro tagli, e quando i pazienti sono semplici immigrati.
Tutto, ancora una volta, sembra essere fatto in nome del nuovo dogma politico-economico di cui un capitalismo perverso e criminale non smette di invocare l’esigenza: ridurre i costi della spesa pubblica.
In un vortice che si abbatte indifferentemente e ciecamente su rami secchi (molti dei quali, per altro, continueranno a riprodursi grazie a privilegi intoccabili) e centri d’eccellenza, a pagare il prezzo più alto saranno ancora una volta i più vulnerabili: coloro che meno di altri hanno accesso alle risorse pubbliche, coloro la cui sofferenza rimane spesso invisibile.
È il momento, tuttavia, di dire (di ripetere) qualcosa intorno alla logica di questi tagli, una logica che non è mai oggettiva né, come ipocritamente si sostiene, efficace nel ridurre sprechi e distorsioni.
Il costo dell’attuale convenzione fra l’ASL TO1 e l’Associazione Frantz Fanon è, per anno, meno di 65.000 euro. Il gruppo di lavoro è composto di circa 15 operatori (psicoterapeuti, medici, psichiatri, psicologi, mediatori culturali, educatori).
Si tratta di un costo irrisorio se si considera il lavoro realizzato dal Centro Frantz Fanon: nel corso di questi anni abbiamo potuto seguire oltre 1600 pazienti anche perché buona parte del lavoro svolto è stato realizzato in modo volontario o ricorrendo ad altre sorgenti di finanziamento. Si tratta però di un costo, quello del Centro Fanon, irrilevante in particolare se lo si confronta con altre tipologie di spesa: quella, ad esempio, relativa ai costi per il ricovero annuo di un solo paziente (!) presso una comunità psichiatrica, e certo irrilevante anche se misurato con quello di altre spese di un’Azienda Sanitaria.
È tuttavia evidente che questi dati non bastano a sostenere la nostra esperienza né l’urgenza di un intervento specialistico rivolto a vittime di tortura, rifugiati, richiedenti asilo, a coloro che non troverebbero al momento in altri servizi dell’ASL analoghe risorse terapeutiche.
Non ne siamo affatto sorpresi, tutt’altro, e ciò per almeno due motivi, il primo inesorabilmente contingente e miserabile, il secondo più complesso.
Il primo: non c’è da stupirsi che un’azienda sanitaria operante in una Regione il cui Governatore appartiene a un partito come la Lega Nord sia del tutto indifferente ai problemi posti dalla sofferenza della popolazione immigrata. Garantire un lavoro clinico complesso all’altezza della loro domanda di cura non è certo una preoccupazione per un gruppo politico che ha offeso ripetutamente la condizione degli immigrati, approvando nel precedente governo una legge che infrange i più elementari diritti umani (l’istituzione dei CIE), giungendo a privare per un periodo che può durare sino a diciotto mesi della propria libertà donne e uomini che hanno commesso la sola colpa di sognare un destino migliore o che, più drammaticamente, hanno voluto sottrarsi alla morte e alla violenza.
Coloro che sono interessati a riprodurre il proprio potere nei meandri di un potere cieco e indifferente ai bisogni reali, coloro che rappresentano l’Altro solo nei termini di un disprezzo sistematico se non razzista, non possono essere certo interlocutori di un simile progetto.
Ma c’è un altro motivo, si è detto, che rende tutto sommato prevedibile il silenzio di un’ASL.
Ogni qualvolta si chiede conto delle loro scelte, si risponde sempre che queste sono motivate, oggettive, “nell’interesse di…”.
Tuttavia l’oggettività, scriveva Fanon ne I dannati della terra, invocata dai giornalisti occidentali quando chiamati a dar conto dei loro giudizi sui comportamenti dei colonizzati, si rovescia sempre implacabilmente e inesorabilmente contro questi ultimi. Possiamo oggi riprendere questo stesso argomento, avendo solo cura di scrivere: contro i dominati, gli immigrati, i marginali. Una classe politica ubriaca del suo potere, sostenuta da un ceto di burocrati pronto a offrire servile il suo arsenale di leggi, circolari e commi, prolifica all’ombra di un’oggettività che finisce per colpire, ormai lo sappiamo, sempre e solo i più deboli.
«L’uomo parla troppo. Occorre insegnargli a riflettere. E per questo occorre fargli paura. Molta paura. Per questo io ho parole-archi, parole-proiettili, parole-coltello». Questo scriveva Fanon in una celebre lettera indirizzata al fratello, testimone delle sue esperienze e dell’ipocrisia e delle contraddizioni che andava scoprendo nell’Europa dei diritti...
Da Fanon abbiamo tratto una lezione di impegno e di coerenza, di coraggio e di indocilità, che non sarà certo messa in discussione dall’indifferenza delle istituzioni né dal razzismo che le abita, spesso mascherato dalla retorica della sicurezza o da quella della razionalità economica.
L’obbedienza non è più una virtù: è questo un altro principio che ha guidato sempre la nostra pratica, sussurrato con forza da don Milani anni addietro quando un altro razzismo si abbatteva contro altri «stranieri», un principio che continua a indicare un percorso che alcuni di noi testardamente continueranno a seguire nel tentativo di realizzare un lavoro rigoroso, al servizio di chi soffre, quale che sia la sua condizione, la sua appartenenza, il suo statuto giuridico. Senza differenze di sorta.
Per fare tutto questo abbiamo però urgentemente bisogno del vostro sostegno. Sì: questa volta si tratta anche di un sostegno materiale, utilizzando le modalità che riterrete più opportune.
Vogliano continuare altrove, già a partire dal mese di gennaio 2013, la nostra esperienza. Vogliano mantenere il Centro Frantz Fanon aperto. I soci dell’Associazione hanno deciso all’unanimità, nell’Assemblea del 17 dicembre 2012, di contribuire a questo progetto donando parte del loro contributo annuo per le attività svolte. Ma questo non sarà sufficiente, nel primo anno, per pagare l’affitto di una sede che possa disporre di un numero minimo di locali e, facilmente accessibile, costituire uno spazio dignitoso per l’accoglienza e la cura degli immigrati.
Stiamo già presentando progetti che prevedano il contributo per l’affitto della sede, ma le risposte – se positive – saranno utilizzabili solo a partire dai prossimi anni. E a noi servono risorse ora.
Per questo, per tutto questo, chiediamo ai numerosi amici e compagni di viaggio che – in Italia e altrove – hanno seguito con interesse la nostra esperienza, chiesto suggerimenti per riprodurla in altri contesti, condiviso con noi riflessioni, iniziative e pratiche innovative, di aiutarci perché il lavoro del Centro Frantz Fanon possa proseguire il proprio cammino come sempre: senza compromessi.

Non siamo mai stati bravi per quanto riguarda la “ricerca fondi”. Non saremo bravi neanche questa volta nel predisporre strategie di marketing e sponsorizzazioni.
Abbiamo pensato a due formule di donazione: ‘amici’ (10 euro) e ‘sostenitori’ (50 euro), ma qualunque altra formula sarà ben accolta!
La donazione può essere fatta sul conto corrente bancario intestato all’Associazione Frantz Fanon:

UNICREDIT, Via Principi d’Acaja 55F, 10138 Torino
IBAN: IT23L0200801118000003061841

Sul sito dell’Associazione (www.associazionefanon.org) vi terremo informati sugli sviluppi.
Grazie sin d’ora, e Buon Anno!


Torino, 24 dicembre 2012

Roberto Beneduce
Responsabile del Centro Frantz Fanon





Tutti i soci dell’Associazione Frantz Fanon:

Lahcen Aalla
Roberto Bertolino
Michela Borile
Nicola De Martini
Walter Dell’Uomini
Ambra Formenti
Stefania Gavin
Simona Gioia
Sara Goria
Simona Imazio
Irene Morra
Anna Chiara Satta
Simone Spensieri
Simona Taliani
Luigi Tavolaccini
Francesco Vacchiano
Alice Visintin
Eleonora Voli

lunedì 26 novembre 2012

identificare, sorvegliare, punire

Zapruder
29settembre – dicembre 2012
il nome della cosa
classificare, schedare, discriminare





ILARIA LA FATA
PERICOLOSO A SÉ AGLI ALTRI E DI PUBBLICO SCANDALO”

storie in movimento


sabato 6 ottobre 2012

il caso Mastrogiovanni



il manifesto martedì 2 ottobre 2012
Francesco Mastrogiovanni morì legato a un letto di contenzione: oggi requisitoria del pm al processo che vede indagati 18 medici e infermieri dell’ospedale di Vallo della Lucania
Un anarchico in cerca di guai
di Angelo Mastrandea

Il 2 ottobre 2012 Francesco Mastrogiovanni avrebbe compiuto il suo sessantunesimo compleanno. Lo avrebbe festeggiato, immaginiamo, nella sua casa in mezzo alla campagna a Castelnuovo Cilento, insieme alla madre e al fratello che vivevano nella stessa abitazione, alla sorella Caterina e magari agli amici che, non fosse accaduto quello che stiamo per raccontare, sarebbero rimasti tali senza bisogno di organizzarsi in un Comitato che chiede verità e giustizia. Solo il padre Alfonso, che nel ’72 era stato anche candidato al Senato dal manifesto nel collegio di Sala Consilina (era la stessa campagna elettorale della candidatura di Pietro Valpreda, il “ballerino anarchico” ingiustamente incarcerato per la strage di Piazza Fontana), non c’è piùdal ’98 e non sarebbe stato della partita. Per ironia della sorte oggi, 2 ottobre 2012, questi convitati saranno invece tutti nel tribunale di Vallo della Lucania ad ascoltare la requisitoria del pubblico ministero Renato Martuscelli al processo che vede imputati di sequestro di persona, falso in atto pubblico e morte in conseguenza di altro reato sei medici e dodici infermieri per la tragica fine di Francesco Mastrogiovanni, avvenuta la notte del 4 agosto del 2009 dopo un’agonia di quattro giorni, legato su un letto di contenzione del centro di salute mentale del locale ospedale. Familiari e conoscenti cercheranno di ricevere una prima risposta giudiziaria ai tanti perché di una vicenda che nessuno finora è riuscito a spiegare compiutamente.
Ma, comunque andrà a finire, nessun giudice potrà riuscire a sciogliere fino in fondo tutti i nodi di questa intricata vicenda, cominciata la sera del 30 luglio 2009 sul lungomare cilentano di Acciaroli, o forse addirittura la sera del 7 luglio 1972 su quello di Salerno. I magistrati potrebbero contribuire a snodare solo il primo dei tanti lacci che avvolgono questa terribile storia, spiegando il perché Francesco Mastrogiovanni entra, alle 12,32 del 31 luglio 2009, nell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, e ne esce cadavere ottantanove ore dopo, e per quale ragione, tra i diciotto medici e infermieri coinvolti a vario titolo, non uno di loro si chiede se stiano facendo la cosa giusta a tenere un malato legato a un letto sedato, senza dargli da mangiare e da bere solo attraverso una flebo, non uno si cura di verificare se fosse denutrito o disidratato, quali siano le sue condizioni di salute. Più difficile dare delle risposte alle altre domande che familiari e amici si pongono: perché Francesco Mastrogiovanni viene fermato, in spiaggia la mattina del 31 luglio, con uno spiegamento di guardia costiera, carabinieri e vigili urbani degno della cattura di un boss della camorra; perché il sindaco-pescatore Angelo Vassallo, che di lì a un anno sarà assassinato misteriosamente in una vicenda che non ha nulla a che vedere con quest’ultima, non solo firma il Trattamento sanitario obbligatorio ma svolge addirittura un ruolo attivo, chiamando la sera prima alle 23,30 un tenente dei vigili e chiedendogli di intervenire per un Tso, appunto; perché l’uomo fermato in acqua, dopo una visita medica e un caffè al bar del campeggio La costa del Cilento dove villeggia, prima di salire sull’ ambulanza dice alla proprietaria Licia Musto: “Non mi fate portare a Vallo perché là mi ammazzano”.
L’omicidio Falvella
Nessuno riusciràmai a spiegare completamente, infine, quanto abbia influito su questa storia un’altra vicenda che aveva avuto un peso terribile nell’esistenza di Francesco Mastrogiovanni: quella che lo vide coinvolto nella morte del segretario locale del Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, Carlo Falvella.
Era la sera del 7 luglio del 1972, e lui, all'epoca studente universitario e vicino al movimento anarchico, percorreva via Velia, una stradina del centro di Salerno che scende verso il mare, insieme a un compagno, il ventiseienne Giovanni Marini. Nel pomeriggio quest’ultimo era stato minacciato, insieme a un altro giovane all’epoca appena diciassettenne, Gennaro Scariati, da un gruppo di fascisti. Gli anarchici salernitani stavano indagando su una inquietante vicenda che aveva coinvolto cinque loro compagni di Reggio Calabria, morti due anni prima in uno strano incidente stradale all’altezza di Ferentino, in provincia di Frosinone, mentre portavano a un avvocato romano delle carte che avrebbero, a loro dire, provato i legami tra ‘ndrangheta, estrema destra, servizi segreti deviati ed emissari dei colonnelli greci in vista del golpe Borghese, e come la prova di tutto ciò fosse un attentato, spacciato per incidente, a un treno diretto a Gioia Tauro. Uno di loro, Giovanni Aricò, era il cugino di Tonino Perna, economista e storico collaboratore del manifesto.
Avrebbe dovuto esserci anche Perna su quell’auto ma decise diversamente all’ultimo istante, e oggi racconta: “Mio cugino prima di partire mi disse che avevano in mano delle carte che avrebbero fatto tremare l’Italia”. L’incidente presenta a sua volta numerose stranezze, ma si tratta di un’altra storia e qui vale la pena ricordare solamente, ai fini della nostra ricostruzione del caso Mastrogiovanni, che questi documenti non saranno mai ritrovati e che il gruppo di anarchici cui apparteneva Mastrogiovanni stava indagando sull’autista del camion contro il quale i loro compagni si erano schiantati, che avevano scoperto essere un militante salernitano delMsi.
Quella sera Marini e Mastrogiovanni si trovarono ancora una volta di fronte il
gruppetto di provocatori del pomeriggio, quest’ultimo tentò di affrontarli con la parola ma ne ricevette in cambio una coltellata a una gamba. Marini a sua volta intervenne, disarmò l’accoltellatore, colpì a morte con la stessa arma Falvella e ferì all’inguine un altro missino,Giovanni Alfinito. Mastrogiovanni si farà alcuni mesi di carcere, sarà accusato di rissa e poi scagionato, ma la vicenda lo segnerà a lungo. Quanto ha pesato nel comportamento di agenti e medici, trentasette anni dopo, il fatto che fosse schedato nelle caserme di polizia e carabinieri come “noto anarchico”? E’ forse per questo che viene ordinata un’operazione poliziesca in così grande stile per bloccarlo, senza che, è bene ricordarlo, avesse commesso alcun reato, al massimo un’infrazione al codice stradale? Quanto ha contato quel precedente del 1999, quando, denunciato per resistenza aggravata dopo una multa per divieto di sosta, Mastrogiovanni aveva a sua volta accusato gli agenti di arresto illegale, lesioni personali, abuso di autorità e calunnia, sostenendo di essere stato picchiato in caserma e riuscendo a ottenere in secondo grado l’assoluzione e il risarcimento per ingiusta detenzione? Quanto hanno inciso il suo passato e la nota avversione per le forze dell’ordine sul suo comportamento il giorno del fermo?
Il maestro più alto del mondo
Nell’agosto del 2009 è morto il nostro maestro Franco Mastrogiovanni. Era un gigante dalle mille risorse, un uomo buono e comprensivo. Era un uomo che non si limitava a insegnarci la matematica, ma ci dava anche preziosi consigli sulle altre materie. Durante l’intervallo molto spesso amava leggere il dizionario. A noi questa abitudine sembrava un po’ strana, un giorno infatti un nostro compagno gli domandò perché aveva questa passione, e lui rispose che nella vita bisogna sempre istruirsi e imparare nuovi vocaboli. Ci lasciava risolvere i nostri litigi senza intervenire, perché riteneva giusto che ognuno facesse da solo la pace. Un bell’aspetto del suo carattere era quello di essere sempre sorridente, anche nei momenti magari più difficili. Purtroppo ancora oggi ragioni valide della sua morte non ce ne sono”. Gli alunni lo avevano soprannominato “il maestro più alto del mondo” per via del suo metro e novanta di altezza. Tre di loro, Rosa Cortiglia, Giuseppina Di Filippo e Bartolomeo D’Alessandro, arrivati in seconda media, nel maggio scorso lo hanno ricordato affettuosamente sul giornalino della scuola “Giovanni Patroni di Pollica” intitolato “La tofa”, uno strumento rivoluzionario dal suono selvatico che nel 1848 servì a chiamare i contadini del Cilento alla rivolta anti-borbonica. Il “maestro più alto del mondo” al momento della morte era ancora un supplente, un precario della scuola, ma visto il punteggio in graduatoria presto sarebbe diventato di ruolo, quando ormai già veleggiava verso i sessant’anni. Non aveva mai avuto problemi con gli altri insegnanti, né con bambini e genitori, che anzi lo ricordano con affetto, come abbiamo visto dalle righe dedicategli sul giornalino scolastico. Come si concilia tutto ciò con le sue periodiche depressioni e con altri due trattamenti sanitari obbligatori cui era già stato sottoposto, nel 2002 e nel 2005, e che spiegherebbero, forse, quelle affermazioni al momento del fermo: “Nonmi fate portare a Vallo perché là mi ammazzano”? Anche chi lo aveva conosciuto lo ricorda come un uomo che si infiammava quando si parlava di politica,ma nessuno lo descrive come un “pazzo” o un violento, tutt’altro. Invece, è così che è stato trattato.
Il sindaco-pescatore
Gli orari, se vogliamo ricostruire con precisione questa storia senza purtuttavia riuscire a sciogliere tutti gli enigmi, sono decisivi. Tutto comincia alle 23,30 del 30 luglio 2009, quando il tenente dei vigili urbani di Pollica Graziano Lamanna afferma di aver ricevuto una telefonata dal sindaco Angelo Vassallo, che gli chiede di andare sull’isola pedonale di Acciaroli perché una persona stava creando problemi e bisognava fare un Tso.Nella sua relazione Lamanna scrive di aver tentato di fermarlo ma di non esserci riuscito, perché l’uomo guidava ad alta velocità con lo sguardo perso nel vuoto. La storia presenta delle lacune: come si fa a notare lo sguardo perso nel vuoto di notte in un’auto lanciata ad alta velocità? Chi è stato in vacanza da quelle parti, inoltre, sa bene che in quel periodo il lungomare di Acciaroli è affollatissimo e guidare a grande velocità nell’isola pedonale oppure contromano nelle strade circostanti vorrebbe dire avere grandi probabilità di commettere una strage e sarebbe un po’ come cantava Lucio Battisti, “guidare a fari spenti nella notte per vedere se è più facile morire”. In ogni modo, quella sera non accade nulla: Mastrogiovanni non viene fermato né multato né sottoposto a Tso, e non accade alcuna strage di pedoni innocenti. Lo stesso vigile alle 8,30 della mattina successiva lo vede passare di nuovo con la sua Punto bianca. Stando a quanto il pubblico ufficiale riferisce, ha ancora lo sguardo perso nel vuoto e non si ferma all’alt. Perciò Lamanna chiama i carabinieri e tutti insieme inseguonoMastrogiovanni sulla litoranea, fino ad Agnone, nel vicino comune di Montecorice, e poi indietro a San Mauro Cilento, dove il fuggitivo parcheggia, corre in spiaggia e si butta in acqua, ma si trova di fronte la Guardia costiera che, a detta di alcuni testimoni, avrebbe persino chiesto ai bagnanti con un megafono di allontanarsi dalla zona delle operazioni. Ne uscirà spontaneamente solo dopo una visita medica, effettuata dalla spiaggia a una settantina di metri di distanza da Mastrogiovanni, che certifica lo stato di agitazione in cui l’uomo si trova. Sono più o meno le 11 quando Mastrogiovanni viene portato sull’ambulanza, dove accetta di essere sedato.Il sindaco Vassallo, pur essendogli sfuggita di competenza la questione (il fermo avviene in un altro comune e non a Pollica) firma comunque il Tso senza neppure avvisare il suo collega di San Mauro Cilento e senza vedere i certificati medici, che gli vengono letti per telefono. Eppure, non sarebbe bastato il fatto che Mastrogiovanni si è “arreso” e fatto sedare di sua volontà per far decadere il Tso? E, risalendo a monte della faccenda, se si fosse trattato solo di una persona che aveva spinto un po’ troppo il piede sull’acceleratore, non saremmo stati di fronte a una banale, per quanto pericolosa, infrazione al codice della strada, affrontabile con una multa e provvedimenti sulla patente? Ancora: perché, se Mastrogiovanni era considerato così pericoloso da meritare un ricovero coatto, è stato lasciato libero di scorrazzare per un’intera notte? Il Comitato verità e giustizia, che si è costituito parte civile al processo insieme ai familiari, è rimasto doppiamente ferito dall’uccisione di Vassallo: prima per il mistero legato alla morte di un sindaco dai modi sì spicci ma benvoluto, rigoroso e onesto, poi perché “la sua testimonianza al processo sarebbe stata utile. Avrebbe almeno potuto spiegare perché ha firmato quel Tso”. Assodato quel che avrebbe potuto fare il sindaco-pescatore, la domanda successiva rimane comunque inevasa: perché i vigiliurbani hanno eseguito degli ordini a dir poco sbagliati? E per quale motivo i medici hanno perseverato nell’errore? Se pure qualcuno si è accorto che non tutto era compiuto secondo le regole, ne desumiamo che non ha avuto il coraggio di opporsi.
Il video della stanza
Per la ricostruzione delle ultime, terribili ottantatre ore di vita di Francesco Mastrogiovanni risultano decisive le riprese dall’alto della stanza del reparto di Psichiatria in cui l’uomo, dopo l’ingresso alle 12,33 in ospedale in cui appare tranquillo e collaborativo al punto da consumare anche un pasto e da stringere la mano ai medici, viene sedato e legato mani e piedi a un letto. Non ci fossero state, compagni e familiari avrebbero avuto molta più difficoltà a far emergere la loro verità. Dopo il ricovero coatto, la sorella Caterina si era rivolta al sindaco di Castelnuovo Cilento per avere notizie del fratello, e questi aveva assicurato che stava bene, probabilmente in base a informazioni indirette e senza averlo visto. La sera del 3 agosto, inoltre, alla vigilia della morte, la nipote Grazia Serra era andata a portare della biancheria allo zio ma le era stato risposto che non era possibile avvicinarlo, che stava bene e che entro una settimana al massimo sarebbe tornato a casa. È lo stesso sindaco di Castelnuovo ad avvisare Caterina della morte di Francesco, la mattina del 4 agosto, non i medici, cui sarebbe spettata l’incombenza. Poco prima, dall’ospedale avevano telefonato a casa del compagno di stanza di Mastrogiovanni, l’imbianchino Giuseppe Mangoletti che l’ha raccontato al processo, per dire ai congiunti di “portare i panni”, il modo in cui nel gergo locale si avvisano i familiari che il loro caro è deceduto. E’ stata una somma di inefficienze e di sciatterie al limite del disinteresse, rese evidenti da questo pacchiano errore finale, a provocare la morte del “maestro più alto del mondo”? Possibile, se si pensa che il filmato della telecamera interna, per chi ha la pazienza di guardarne ogni frammento, mostra persino come un infermiere arrivi a depositare il pasto al fianco di Mastrogiovanni senza slegarlo per permettergli di mangiare, e venga poi a riprenderselo quattro ore dopo. A conferma di ciò che stiamo ipotizzando è anche il fatto che la morte di Mastrogiovanni, avvenuta alle 1,45 di notte, viene scoperta solo al mattino, sei ore dopo. Eppure, il compagno di stanza ha raccontato come questi urlasse e si agitasse, e come quelle urla si siano fatte sempre più flebili fino al silenzio.
Il processo chiarirà responsabilità ultime e dettagli della vicenda, se il primario era in ferie come afferma o se invece ha partecipato alle decisioni, se il fatto che Mastrogiovanni si fosse dichiarato indisponibile a un prelievo di urina, chiesto dai carabinieri, per verificare l’uso di droghe bastasse a una dottoressa (un medico dello sport, incompetente a decidere, protestano al comitato) per confermare il Tso. Forse si potrebbe scoprire che Mastrogiovanni, in conclusione, non è stato ucciso per il suo passato anarchico né per qualche ignota resa dei conti, ma per un più banale così facevan tutti nel reparto di igiene mentale del San Luca di Vallo della Lucania. La contenzione, è quello che emerge dai racconti di altri malati finiti in quell’ospedale, potrebbe essere stata pratica comune, pur se nella cartella clinica di Mastrogiovanni non è menzionata né motivata e dall’ospedale hanno negato che fosse utilizzata. Questo darebbe una spiegazione, seppur parziale, alla principale delle domande che pone il caso Mastrogiovanni: perché per quattro giorni diciotto persone, tra medici e infermieri, non sono state sfiorate da alcun dubbio su quel che stavano facendo. Perché, in buona sostanza, una stanza d’ospedale si sia trasformata in una orribile camera delle torture. 


mercoledì 15 agosto 2012

Elisabeth Roudinesco

La mania della valutazione rischia ancora una volta di trasformare gli operatori psichiatrici in poliziotti. All' erta!

Le Monde, 19 gennaio 2008.

In questi ultimi trent'anni gli stati democratici hanno fatto leva sulla scienza per governare i loro popoli. Questa politica ha permesso di prevenire, curare e guarire molte malattie organiche e ha migliorato notevolmente la nostra vita quotidiana, ma non ha prodotto analoghi successi nel dominio della sofferenza psichica.
Né la genetica, né gli studi sulla plasticità cerebrale sono ancora giunti a dar vita a efficaci trattamenti della malattia mentale o di venire a capo di quei malanni esistenziali rubricati come nevrosi, ansie, depressioni, manie, dipendenze, impulsi autodistruttivi, ecc.
Sono riusciti, tuttalpiù, a mettere a punto medicamenti dell'umore (psicotropi) che hanno permesso agli psicotici di continuare a vivere in famiglia e soprattutto di tranquillizzare quelli che potevano essere pericolosi per se stessi e gli altri.
Ma questa strategia ha un prezzo da pagare: il controllo medico-biologico della popolazione ha favorito il sorgere di un'ideologia securitaria che si risolve nel considerare ogni cittadino come un povero ammasso di neuroni sottoposto a ogni sorta di valutazione. Al soggetto politico erede del secolo dei lumi si è sostituito l'uomo comportamentale, quantificato, reificato, infeudato a una norma tirannica e definito da un'identità religiosa o etnica, in barba ad ogni ideale universalistico, ridotto ormai a ciarpame insieme agli ideali sessantotteschi di chi voleva cambiare il mondo o lottare contro le disuguaglianze.
Si fronteggiano, in fin dei conti, due ideali d'umanità. Il primo, tipico della filosofia anglosassone, prevede che il soggetto sia naturalizzato, ossia ridotto all'animalità, ponendo così fine all'eccezione rappresentata in natura dall'uomo. Per un tale soggetto, più adatto ad obbedire che a pensare, sono previsti, quando entra in sofferenza, solo trattamenti rapidi, valutati da esperti, che modificano, per addestramento, i comportamenti visibili. Fascio di psichismi, il soggetto naturalizzato non ha diritto che a farmaci e terapie cognitivo-comportamentali (TCC).
L'altra concezione, propria della tradizione continentale - fenomenologia e psicanalisi - in considerazione di quanto la parola separi l'uomo dall'animale, pensa che per trattare le sofferenze psichiche siano necessari approcci dinamici o relazionali, di maggior durata, accompagnati o no da trattamenti farmacologici.
All'adesione degli stati all'ideologia della valutazione, sostenuta in Francia da una serie di organismi sanitari (istituto nazionale della sanità e della ricerca - INSERM, agenzie di valutazione, comitati di dépistage, ecc.)  va fatta risalire l'origine delle polemiche in corso da qualche anno, battezzate dai media come guerre de psys, che riguardano da 5 a 8 milioni di persone, in trattamento sia farmacologico che multiterapeutico.
La prima crisi fu nell'ottobre 2003, quando Bernard Accoyer, già alfiere della psicanalisi e ora presidente dell'Assemblée Nationale, riesce a far approvare, in nome della sicurezza degli utenti, un emendamento a una legge sanitaria con cui si riserva l'esercizio della psicoterapia ai laureati in  medicina o in psicologia, abilitando così un ortopedico a curare le depressioni, il che è come dire che un panettiere può fare il fabbro. Questa disposizione andava a rafforzare una risoluzione dell'INSERM che privilegiava i TCC rispetto agli altri approcci. Donde la levata di scudi di professionisti, tra loro molto differenti: 13.000 psichiatri, 5.000 psicoanalisti, 35.000 psicologi, 7.000 psicoterapeuti.
Dopo aver tenuto in ballo tre diversi ministri della sanità, che mai cessarono di contraddirsi, il conflitto si placò con una capitolazione annunciata da tempo dal senatore Jean-Pierre Sueur: l'adozione di una legge inapplicabile (9 agosto 2004), per la quale un quarto ministro, Roselyne Bachelot, non sa ancora se riuscirà a redigerne i decreti applicativi, pur se prevede un piano di prevenzione della depressione che rischia di aumentare il consumo di farmaci psicotropi, dando da intendere a chiunque si senta un po' triste di essere un malato mentale.
Nel settembre 2005 esce un libro nero della psicanalisi, vampata d'odio antifreudiano, seguito da presso dall'annuncio di un nuovo studio dell'INSERM, che scatenerà la giusta collera degli pedopsichiatri. Basandosi su un modello genetico, pretendeva infatti, di poter dedurre da un eccessivo nervosismo dei bebè i segni premonitori di una futura devianza sociale. Vale a dire che si chiedeva a ogni genitore di fare il delatore dei propri figli. La petizione Nessun zero in condotta ai bimbi di tre anni, lanciata da Pierre Delion, raccolse oltre 200.000 firme.
Seguirono le esternazioni, a dir poco spiazzanti, di Nicolas Sarkozy sull'origine genetico-ormonale di suicidio e devianza  sessuale. Ed infine si giunse, nel maggio 2007, alla pretesa del potere statale di utilizzare, in dispregio dei diritti dell'uomo, i test sul DNA per il controllo dell'emigrazione. A ciò si aggiunge, ciliegina sulla torta, la proposta del ministro della giustizia di sottoporre a regolare processo anche gli incapaci di intendere e di volere.
L'ideologia securitaria ormai dilagante nei ministeri della sanità e della giustizia, si propaga anche tra i funzionari del ministero dell'educazione.
Da circa quarant'anni hanno cittadinanza nei dipartimenti di psicologia formazioni cliniche ispirate ai principi della psicanalisi, oggi messe in mora da esperti di formazione psicologico-sperimentale o cognitivista.  Una volta di più si chiede a uno specialista di pronunciarsi su ciò che non conosce, un panettiere che giudica un fabbro. Un conflitto di competenze, giacché questi esperti fanno riferimento a una concezione della soggettività che è differente da quella dei clinici.
A fronte di questa avanzata della mania valutazionista, gli insegnanti interessati lanciarono, nel giugno 2007, la petizione Salviamo la clinica, che raccolse più di 10.000 firme. Nella stessa direzione si muoveva Jacques-Alain Miller, organizzando forum contro le devastazioni apportate dai valutatori.
Forte di questo riscontro, Roland Gori, presidente dell'unica associazione raggruppante tutti i docenti di psicopatologia (SIUEERPP) chiese udienza a Valérie Pécresse, ministro dell'educazione superiore e responsabile degli esperti, consiglieri suoi o del primo ministro: Jean-Marc Monteil, Roger Lécuyer e Michel Fayol. Contro ogni attesa, la richiesta fu respinta.
Rispetto a un tale andazzo, che oggi minaccia gli stessi ministri, le autorità statali devono pronunciarsi chiaramente su una questione di elementare civiltà. Si deve continuare a sottomettere i ricercatori a delle valutazioni astratte e a trasformare chi opera in campo psichiatrico in agente di sicurezza? Si deve insistere con una politica che ci allontana dalle tradizioni umaniste europee? Va sradicato il freudismo dai dipartimenti di psicologia di un paese che vi ha dato alcuni dei più brillanti interpreti, universalmente riconosciuti?
Il dibattito è aperto.

venerdì 3 agosto 2012

torna di moda il matto

il matto torna di moda
Antonello Sciacchitano
L'ignorante e il folle
aut aut 354 
aprile-giugno 2012







LTM 668
aprile-giugno 2012
Franco Basaglia, une pensée en acte

giovedì 12 luglio 2012

Saint-Anne: Charcot e l'isteria 1












le fou: un personnage conceptuel? 2

torna alla prima parte

2. La follia: oggetto per la condizione umana
Esprit: In Le Rêve et l'Existence, edito in Francia nel 1954 con prefazione di Michel Focault, si ritrova l'idea che la descrizione dell'esperienza del matto apporta elementi per un antropologia dell' essere-nel-mondo. Ci sarebbe significato, nella follia, un certo rapporto col mondo, nella misura in cui il delirio del matto non è un delirio senza mondo e senza oggetto. Cosa ne pensa di questa convinzione che il matto abbia qualcosa da insegnarci sull'esistenza umana?


Castel: Ignoro quali fossero in Francia le condizioni per la ricezione delle ideee di Binswanger. Ma visto l'ambiente culturale dell'epoca, l'interesse per Husserl e Heidegger, e la diffusione della sociologia tedesca, attraverso il lavoro di Raymond Aron, penso che l'effetto sia stato grande. Nello stesso periodo, Focault ha tradotto anche Cycle de la structure di Victor von Weizsäcker, che propone una riforma della psicologia a partire dalla fenomenologia, ma anche dalla neurologia positiva. Vi è dunque un generale movimento di importazione in Francia del pensiero tedesco. Non bisogna dimenticare che nel decennio 1950-1960 si confrontano due tendenze: la fenomenologia e il marxismo. Per tanti, la fenomenologia, depurata dai residui di idealismo, è la filosofia più scientifica. Vi è dunque una produzione costante di saggi che gettano un ponte tra fenomenologia e marxismo. Phénomenologie et matérialisme dialectique1, di Tran Duc Thao, ebbe a quel tempo una risonanza, oggi dimenticata. In questo contesto l'esigenza di una descrizione rigorosa della vita spirituale, che non fosse incompatibile con il materialismo dialettico ha avuto un ruolo rilevante nel filtrare la ricezione della fenomenologia in Francia.
Per tornare al problema di fondo, è interessante sottolineare come sia merito dei filosofi, se la follia è diventata un oggetto tanto importante per l'esplorazione della condizione umana. Infatti, nel tempo considerato, gli psichiatri sono soggiogati, negli ambienti medici che contano, dalla neurologia. La clinica dell'afasia, se andiamo a chiedere a chi ha studiato in quei tempi là, era la pietra di paragone dell'eccellenza: precisione analitica, spiegazione meccanicistica, ecc. Gli psichiatrici erano considerati, più o meno, dei neurologi mancati. D'altra parte l'effervescenza intellettuale non era di casa all'università. Fu Henri Ey a cambiare tutto con il suo carisma. Adoro le sue punzecchiature ai cattedratici di allora: «Ci sono degli insegnanti di diritto e degli insegnanti di fatto». Ey si schiera con Eugéne Minkowski e sprona alla lettura di Husserl e Heidegger, in opposizione ad un establishment parigino piuttosto reazionario, che tira avanti su posizioni cerebraliste. Se guardiamo retrospettivamente  il lascito degli allievi di Jean Delay - la covata del Saint-Anne - si delineano tre filiere: Thérèse Lampérière ha fatto della clinica ("francese") tradizionale, Pierre Pichot si è specializzato in psicometria e Pierre Deniker si è dedicato alla psicofarmacologia. Questi tre indirizzi, tramite gli allievi degli allievi, strutturano tuttora la psichiatria francese, ma il loro intrinseco peso intellettuale è quasi zero. E quando si ricorda l'enorme prestigio della psichiatria francese degli anni '50, si deve prendere atto che quel patrimonio è stato interamente dilapidato. Il primato, in medicina, della formazione neurologica ha comunque marginalizzato la psicanalisi. Lacan, è vero, lavorava in quegli anni nella divisione di Delay e anche in quella di Georges Daumezon erano regolarmente assunti psicanalisti, ma questo tipo di collaborazione restava subalterno. Non contribuì  minimamente alla costituzione di un establishment psichiatrico-psicanalitico, fecondato dalle scienze umane, come avvenne, invece, negli anni '70. Fu dunque per il dirottamento operato dai filosofi che le tesi della psicanalisi diventano la base dell'intelligentsia psichiatrica, emancipata dalla neurologia, del post '68. Ricœur, per esempio, approfitta del suo status di prestigioso docente per incorporare Freud in un corso da cui avrebbe dovuto restare escluso. Ma si sobbarca anche il compito di andare fino all'ospedale d'Orléans, per incontrarne i pazienti e di assistere al seminario di Lacan, cosa che, al momento, era una promozione per Lacan e non certo per lui. La mia risposta è molto storicizzante, ma l'idea che il matto ha qualcosa da insegnarci sulla condizione umana è così tanto circoscritta in un tempo preciso, che gli ha conferito senso, da non ammettere proiezioni delle nostre idee attuali.


Esprit: La pubblicazione, nel 1961, della Histoire de la folie à l'âge classique di Michel Focault, segna incontestabilmente una svolta. Si tratta di fare la storia della ragione moderna attraverso il suo trattamento della follia. Perché Focault privilegia questa figura dell'alterità, o del "fuori"?


Castel: In realtà, in partenza Focault non vuol fare una teoria della follia, ma piuttosto una teoria dell'uso che si fa dei riferimenti alla follia per determinare la nozione di ragione. I testi posteriori a Pouvoir psychiatrique (1973-1974), invece, sconfinano più decisamente in campo clinico: Focault vi critica la maniera con cui si è costruito e legittimato l'alienismo. Comincia allora una critica intrinseca della psichiatria come pseudoscienza, come verità normante che produce il malato mentale esercitandovi sopra il proprio potere. Focault rende comunque intellettualmente utilizzabili i lavori che storici, completamente dimenticati dalla posterità, hanno scritto sugli alenisti francesi (Pinel, Esquirol). I loro assunti hanno acquistato senso all'interno di una strumentazione filosofica che, più che levar loro la patina del tempo, li ha decisamente resuscitati. Tuttavia, pur riprendendo interi brani dei loro studi, Focault non li cita mai, operando come se avesse fatto ricorso direttamente alle fonti primarie.
Di base, Focault sviluppa qui un progetto criticista, nel senso kantiano del termine. Il tema della follia (gli psichiatri hanno orrore che si utilizzi questa parola) gli permette di condurre una riflessione critica sui limiti della ragione umana. Una critica della ragione "pura" si può condurre solo entro i limiti della ragione. Ma una critica della ragione "umana" obbliga al confronto con il "disumano", ossia con l'animalità dell'uomo. È dunque centrale la dimensione antropologica. Intanto, la figura del folle contrasta con quella del soggetto razionale? No, di certo. Può certo opporsi a un utilizzo semplicistico del soggetto. Però, dovunque ci sia criticismo, c'è riflessività, e laddove c'è riflessività, si ha sempre un residuo di soggetto metafisico, tranne nel caso - che qui avviene con particolare determinazione - che egli si ponga all'esterno di sé, per osservarsi nell'atto della sua costituzione. Nel razionalismo classico, così come lo legge Focault, la ragione suscita l'idea di un'Alterità a se stessa, per poi definirsi in sua opposizione. La non ragione non sarebbe dunque altro che la ragione allo specchio, quell'alterità radicale che essa ha espulso dal proprio ordine. L'argomento è quello che Kant sviluppa in Anthropologie d'un point de vue pragmatique, testo che d'altronde Focault traduce nel 1964. Kant definisce lì la non-ragione come, in definitiva, una ragione a rovescio. Questa concezione della follia, dunque, non distrugge per nulla il soggetto cartesiano e pur avvitando vorticosamente la dialettica del soggetto, in realtà, di questo non si disfa. Precisamente su questo punto si dipana la polemica tra Focault e DeriddaQuesti contesta la  "posizione dominante" che Focault riserva alla ragione. Per Deridda la separazione tra ragione e non-ragione è, nel cogito cartesiano, molto meno netta. Io credo che si potrebbe immaginare un'alternativa ispirata a Wittgenstein: la ragione è circoscritta dalla non-ragione, come la vita dalla morte, dice da qualche parte. Ma ciò non implica necessariamente che l'Alterità della regione debba essere una sorta di contro-ragione o di anti-ragione assoluta, completamente fuori. Bisogna spezzare lo specchio ingannatore, parcellizzarne i singoli riflessi, regionalizzarli, ma mai, e su questo sono anti-foucaldiano, sostituire al Potere dei micropoteri. Perché questi, a livello molecolare, continuerebbero, ancora e sempre, a innescare l'infaticabile dialettica dello scarto e della norma. Molto empiricamente, e letteralmente, mi sembra che si dovrebbe rilevare che il moltiplicarsi di nuove pratiche e giochi concettuali  sul perimetro della ragione, dove lo scarto dalla norma e il differenziale dei poteri sono solo una delle modalità dell'alterità, non sia nulla di particolarmente edificante o pertinente.


Esprit: Il rapporto con il linguaggio, con la letteratura, riveste un ruolo fondamentale nella percezione della follia. Continuando con questo discorso sui rapporti tra la figura del matto e il soggetto, in che misura il tema del "vuoto di opere" avanzato da Blanchot può essere un ulteriore mezzo per rimettere in causa i poteri della coscienza?


Castel: Nella pratica psichiatrica francese, sia universitaria che istituzionale, mettere l'accento sulle capacità artistiche dei malati di mente è uno dei modi più recenti di non ridurre la malattia mentale a un deficit. Non è così, ad esempio, nella pratica psichiatrica anglosassone, dove vengono valorizzate di più le capacità di organizzazione comunitaria dei malati, il loro reinserimento attivo nel tessuto sociale, il loro attivismo associativo (si pensi al Recovery Mouvement e al silenzio assoluto, confinante con il disprezzo, di cui è gratificato in Francia: "comunitarismo", "auto-accecamento neoliberale", ecc.). Questo topos letterario è una delle chiavi del successo della fenomenologia in psichiatria, a partire da Henri Maldiney, fino alla recente traduzione del lavoro di Binswanger e  Warburg3. Nel momento in cui si ammette la possibilità di opere, e quindi della mancanza di opere, si instaura un altro rapporto con la malattia. La bella formula di Blanchot è fonte di dignità. Anche la psicanalisi ha promosso la creazione artistica ad asse terapeutico, come attestano i testi di Lacan sul surrealismo, sul “caso Aiméee su James Joice4. Ma se l'approccio estetico di Henri Maldiney ha, a mio parere, esteso il concetto d'arte a prescindere dal suo valore terapeutico, la psicanalisi ha invece cercato di porre in pratica, cioè di istituzionalizzare, la creazione artistica come fattore terapeutico. Questa fucina della pratica è l'aspetto più interessante. Cosa ne deriva? Perché esattamente, si offrono ai malati di mente laboratori di scrittura o di pittura e non, ad esempio della "meditazione cognitiva" o il training per trovar lavoro? Lo specchio del matto e del soggetto, questa bella allegoria degli anni '60 si sfalda velocemente. Non c'è altro da proporre?
___________________
1 Tran Duc Thao, Phénomenologie et matérialisme dialectique, Paris, 1951.  
2 Jacques Deridda, «Cogito et histoire dela folie», conferenza al Collège Philosophique (1963), poi in L'Écriture et la Différence, Paris, 1967-
3 Ludwig Binswanger, Aby Warburg, La Guérison infinie, Paris, 2007.
4 Jacques Lacan, De la psychose paranoïque dans ses rapports avec la personalité. Paris, 1980. Id. séminaire le Sinthome, 1976.

Duchenne de Boulogne. Seduta di elettrostimolazione